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Diari interiori di un osservatore anonimo ⋅ Il cinema di David Perlov

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Il capitolo centrale dell’opera di David Perlov è Diary 1973 – 1983. Siamo senza ombra di dubbio di fronte a uno dei passaggi fondamentali dell’evoluzione documentaristica nell’ambito del Novecento, per molteplici motivazioni. Le questioni espressive che Perlov elabora nella sua opera monumentale (330 minuti) riguardano in primo luogo il senso stesso del lavoro registico, non più inteso come meccanismo di creatività professionale ma come metodo di scrittura poetica connessa al quotidiano, all’intimo. Perlov, in modo concettuale, abbandona intenzionalmente la posizione di artista demiurgo e prete/manipolatore della realtà per collocarsi nella condizione ben più laboriosa e ardita di inquieto osservatore privo di convinzioni incrollabili. Non più dunque cineasta costruttore di un mondo visivo parallelo al mondo osservabile ma testimone del progredire sfuggente dell’esistenza. Tale impostazione è però sempre abilmente intrecciata alla volontà di decifrazione del proprio universo interiore, in una continua oscillazione della coscienza tra vita e pensiero, sguardo e sogno, razionalità e deriva emozionale. La macchina da presa diviene in Diary una protesi dell’occhio, il terminale di un sistema di riflessione filosofica che parte dal cuore, passa attraverso la mente, transita per lo sguardo e si tuffa nel visibile. Si tratta di una sorta di procedimento in loop poiché il tragitto interiore/esteriore del pensiero è ininterrotto. Non c’è stasi nelle immagini di Diary ma un perenne avventurarsi tra il dentro e il fuori che non intende spiegare il reale quanto piuttosto accettarne filosoficamente le regole. La macchina da presa è altresì una vera e propria maschera che permette al cineasta israeliano di muoversi in modo anonimo nel labirinto degli impulsi esistenziali.

Pur compiendo un percorso cronologico in sei capitoli (esiste inoltre un’appendice denominata Revised Diary 1990 – 1999, divisa in tre capitoli), Diary non vira mai verso il racconto tradizionale oggettivante. Gli individui che si incontrano non sono mai solo personaggi reali, ma anche proiezioni della psiche e dell’inconscio di Perlov, il quale è costantemente all’interno di un processo di autoanalisi. L’autore, nonostante sia preso da questa spirale antinarrativa, procede alla registrazione di eventi, fatti (anche piccolissimi); tale registrazione non intende storicizzare il tempo ma svolgere un ruolo di ulteriore spinta al ragionamento. Così, Perlov finisce per interrogarsi sulla natura del suo lavoro, sulla sostanza di un’operazione che sembra avere le connotazioni di un diario visivo di famiglia ma che in verità si spinge molte oltre. La sua voce piena di armonici, calda, antica, sottolinea le inquadrature con brevi frasi secche, spesso accompagnate da un sottile gioco di suoni e di significati nel quale ogni elemento comunicativo si fronteggia senza preponderare sull’altro.

David Perlov. Diary

Diary abbraccia un arco temporale di dieci anni, dalla Guerra del Kippur del 1973, vissuta a Tel Aviv, al viaggio in Brasile del 1983. Ma ciò che interessa a Perlov non è tanto il concetto di tempo nell’ambito delle convenzioni umane quanto la percezione di un proprio tempo interiore che corrisponde fatalmente alla condizione di essere umano in continuo viaggio fisico e psicologico. Perlov riesce in Diary nel miracolo (in verità raro nella storia del cinema) di scrivere attraverso l’obiettivo. Il suo è uno sguardo pieno di dubbi, stupore e sensibilità che procede per annotazioni in un passaggio incessante tra passato, presente e futuro che stimola la produzione di memoria ma anche una “tragica” analisi di un presente che non va vissuto solo grazie ai grandi eventi della storia ma anche attraverso le esperienze dello sguardo, spesso connesse al privato, alla vita familiare.

Diary è un testo filmico profondamente democratico poiché qualunque persona, anche la più umile, nell’ambito del progetto espressivo di Perlov può essere generatrice di prospettive interpretative autonome. I legami familiari vengono collocati nell’architettura espressiva di Diary dall’autore/uomo anonimo, il quale riconosce le proprie angosce e i propri desideri nelle persone amate. Attraverso il processo di osservazione Perlov sembra voler proteggere i propri affetti dal precipizio del non senso della vita ma pessimisticamente non si spinge oltre la soglia della riflessione personale. Le figlie Yael e Naomi, la moglie Mira, gli amici israeliani e brasiliani, ma anche le donne sconosciute che puliscono i vetri nel palazzo di fronte o che camminano anonimamente per la strada, rappresentano altrettanti “ambienti” di indagine. In Diary però, le osservazioni di Perlov non portano mai a delle risposte, anzi lo scopo della continua ricerca visiva del cineasta sembra più che altro quello di continuare a porsi dei quesiti, a cui è impossibile rispondere. Questo atteggiamento creativo, in ogni caso, non gli impedisce mai di contestualizzare le sue esperienze nella realtà, per tale motivo Perlov evita magistralmente la deriva qualunquistica e procede per postille aperte che lasciano spazio allo spettatore di proiettare dentro le sequenze del film la propria tensione interiore. In Diary, Perlov mette in pratica una poetica apparentemente “limitata” ma che invece coincide con il desiderio di essere dentro il mondo, di condividerne tutte le sfaccettature in maniera diretta e non narcisistica. Per tale motivo, gira moltissimo nel posto in cui vive. Non solo lungo le strade intorno al suo palazzo, ma addirittura all’interno della sua stessa casa, spazio degli affetti ma anche simbolo di uno smarrimento esistenziale di tipo psicanalitico che non lo abbandona mai e contro il quale combatte una battaglia che probabilmente non è mai riuscito a vincere.

David Perlov. Diary

La macchina da presa è spesso mobile, tremolante, viva. La presenza del suo sguardo sul reale è contemporaneamente tempo soave e impressionante. Guarda spesso dall’alto del suo appartamento nel cuore di Tel Aviv la vita scorrere, in un flusso incomprensibile. Le strade sono come i grossi vasi sanguigni di un corpo che pulsa in continuazione, le macchine la linfa che scorre senza soluzione di continuità. La visione dall’alto è mobile, nervosa e sempre enigmatica. Anche quando lo sguardo di Perlov si sposta al livello del suolo, la scelta non è mai legata alla rappresentazione pura e semplice del visibile ma è sempre posta in una condizione di percezione del lato segreto dell’agire umano. Tel Aviv appare una città misteriosa, surreale, simbolo della stessa complessità e stratificazione della cultura ebraica, una città dai tratti mediorientali ma anche razional-occidentali, che riserva sempre delle zone d’ombra, degli angoli misteriosi che Perlov ama osservare (e non svelare). Anche quando il cineasta registra il respiro delle masse popolari, come avviene in occasione di manifestazioni di carattere politico, il suo approccio è sempre contraddistinto dal predominio del “dubbio”.

La dimensione familiare è un perno intorno al quale ruota il processo creativo perloviano. L’autore non dimostra solo un legame affettivo nei confronti delle figlie quanto piuttosto una vorace, ma discreta, curiosità di comprensione. Quando punta l’obiettivo su Yael e Naomi, David è come se assumesse l’amorevole ruolo di scienziato dell’infinitamente piccolo. La macchina da presa diviene microscopio puntato su una realtà che, esaminata in maniera certosina, produce uno slittamento verso altre dimensioni del pensiero. Lo spostamento del dispositivo ottico dal familiare al mondo esterno non genera mutazioni espressive o stilistiche ma solo un cambio di ottica. Dal microscopio, Perlov passa ad altre “lenti di ingrandimento” che prima gli permettono di selezionare ciò che gli è vicino e poi, via via, ciò che è sempre più lontano. In tal modo, il regista ha creato una sorta di asse narrativo/visuale che ha come punto di partenza il suo occhio, come “luoghi” di passaggio i suoi sentimenti, la sua casa, i suoi diversi paesi di nascita e di adozione (Brasile, Francia e Israele) e come sbocco finale l’umanità intera.
David Perlov osservatore anonimo produce in Diary un affresco anche emotivo, seppur misurato, del sentire umano. Anche quando ritorna a San Paolo del Brasile, la città della sua gioventù, il suo percorso è lineare, quasi distaccato, e mai banalmente patetico o autocelebrarivo.

Perlov in Diary apre e chiude senza soluzione di continuità dei capitoli esistenziali, ondeggia tra pubblico e privato con la leggerezza sublime del poeta costantemente cosciente del non senso della vita e della consapevolezza che per quanto si possa scrutare dentro di noi non si arriverà mai all’inizio di tutto, ma che dietro un abisso c’è sempre un altro oscuro abisso.

© Maurizio G. De Bonis

Un estratto dell’articolo dedicato a David Perlov che sarà pubblicato sul numero 49 (gennaio-marzo 2008) di CineCritica. Ringraziamo il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI per averci concesso il testo.

CultFrame 03/2008 – 11/2020

Dal 24 ottobre al 7 novembre / Archivio Aperto

INFORMAZIONI
5 e 6 aprile 2008
Palazzo delle Esposizioni / via Nazionale 194, Roma / Telefono: 0639967500 / Ingresso libero
A cura di Maurizio G. De Bonis e Orith Youdovich

SUL WEB
Il sito di David Perlov
Palazzo delle Esposizioni, Roma

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